Società in house un ibrido mal riuscito
di Alessandro De Nicola
Affari & Finanza - La Repubblica
Lunedì 27 agosto 2018
In questo periodo si fa un gran parlare di nazionalizzazioni, poteri direttivi dello Stato in economia ed altri seri
argomenti. Ci si immagina un'autorita pubblica illuminata che sappia capire i nostri bisogni, ce li spieghi e li realizzi
(che noi si sia d'accordo o meno). Nel concreto, purtroppo, lo Stato arriva in ritardo nel ricevere informazioni ed
interpretarle, prende decisioni che rispondono a varie logiche di potere, elettorali, lobbistiche e difficilmente di
"interesse pubblico" e poi le attua pure male. Per di più, nel nostro Paese la normativa, se possibile, crea ancor più
confusione. Una sentenza estiva del Tribunale di Roma (2 luglio) provvede a ricordarcelo. Come è noto, le società in house
sono quelle direttamente o indirettamente di proprietà al 100% di una o più amministrazioni pubbliche e le cui attività sono
al servizio (almeno l'80% del fatturato) di queste ultime. Orbene, l'art. 16 del Decreto Legislativo 19 agosto 2016, n. 175
(la cosiddetta riforma Madia) prevede che gli statuti di queste società per azioni possano contenere clausole in deroga al
codice civile, in particolare al principio generale del diritto societario in base al quale "la gestione dell'impresa spetta
esclusivamente agli amministratori, i quali compiono le operazioni necessarie per l'attuazione dell'oggetto sociale" (art.
2380-bis del codice). In tale contesto, il Tribunale di Roma ha stabilito che, ai sensi della legge del 2016, l'attribuzione
della gestione alla competenza degli amministratori può essere in vario modo limitata dall'ente proprietario attraverso
poteri di direttiva, avocazione e controllo al fine di realizzare una "eterodirezione strategica" ma mai completamente
svuotata di contenuto come, invece, si realizzerebbe mediante la limitazione della competenza alla sola "ordinaria
amministrazione". Pertanto, ad avviso dei magistrati capitolini, gli statuti delle società in house possono senza dubbio
prevedere poteri di "controllo delle decisioni strategiche o comunque particolarmente significative (ad es., mediante
l'attribuzione di poteri di direttiva, indirizzo, autorizzazione, veto)" in capo al socio pubblico di controllo, ma non fino
al punto di limitare le funzioni poste in capo al consiglio di amministrazione alla sola "ordinaria amministrazione", in
quanto, in tal caso, si assisterebbe a un inammissibile "svuotamento" della competenza gestoria consiliare. Senza contare
che i poveri amministratori rimarrebbero responsabili per l'attività svolta sia ai sensi del codice civile nei confronti dei
soci che per la responsabilità amministrativa verso la Corte dei Conti, mentre l'ente pubblico (nel caso di specie il comune
di Velletri), per il principio di irresponsabilità per i voti espressi in assemblea, la passerebbe sempre liscia. La
sentenza riporta un minimo di buon senso nell'interpretazione della legge Madia, ma non può cancellarne i difetti
strutturali. Infatti, anche nella forma edulcorata delineata dai giudici romani, la governance risulta estremamente confusa
in quanto i poteri di intromissione dell'ente pubblico non solo rimangono elevati ma dai confini sfocati: veti,
autorizzazioni, direttive, indirizzi possono invero costituire una camicia di forza per gli amministratori, anche quando
formalmente essi non hanno la sola ordinaria amministrazione. Purtroppo, le società in house sono un ibrido destinato a non
funzionare bene. Bisognerebbe avere il coraggio di riconoscere che alcuni servizi essenziali non possono che essere svolti
dalla pubblica amministrazione, la quale adempie ai suoi doveri in prima persona secondo tutti i canoni del diritto
amministrativo. Gli altri, se sono esperibili in un mercato concorrenziale vanno lasciati ai privati e comunque le società,
anche se a partecipazione pubblica, dovrebbero sottostare al regime di diritto privato, molto più chiaro e coerente.
L'ambiguità e i chiaroscuri possono funzionare in letteratura, non in economia.
Nota: il contenuto del documento deve essere interpretato in relazione al periodo
in cui è stato redatto.
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