Il calcio perdona l'insensibilità verso il razzismo
di Gigi Riva
La Repubblica
Lunedì 31 dicembre 2018
La Fondazione di Lilian Thuram, 47 ani domani, ha indicato la missione fin
dal titolo: "Éducation contre le racisme". L'indimenticato calciatore
campione del mondo e d'Europa con la Francia, d'Italia con la Juventus,
recordman di presenze con la nazionale, è a Guadalupa, sua terra d'origine,
dove ha allestito una mostra sui temi che gli sono cari per aver subito
discriminazioni a causa del colore della pelle. Su questi argomenti ha
scritto due libri: "Per l'uguaglianza. Come cambiare i nostri immaginari" e
"Le mie stelle nere. Da Lucy a Barack Obama" (entrami Add editore). Benché
lontano, gli echi del caso Kalidou Koulibaly durante Inter-Napoli del 26
dicembre gli sono arrivati, sollecitandolo a prendere una posizione netta.
In questa intervista chiama in causa l'etica della responsabilità
individuale e collettiva di diversi attori: arbitri, giocatori, allenatori,
dirigenti, pubblico, politici, organismi come la Fifa e l'Uefa. La sua tesi
di fondo: «Contro il razzismo non c'è una reale volontà di agire».
Lilian Thuram, come ci si doveva comportare a Milano secondo lei per
proteggere il giocatore dagli ululati del tifosi nerazzurri?
«Nessun dubbio: sospendere la partita. Mi dicono che l'allenatore Carlo Ancelotti
ha chiesto l'interruzione e non è stato ascoltato. E che Koulibaly in seguito è
stato addirittura espulso per un applauso ironico verso l'arbitro. Ecco, così si
chiude il cerchio. Chi subisce il razzismo e reagisce, denuncia, diventa
colpevole in nome del superiore interesse dello show che deve continuare».
In Italia l'arbitro per regolamento non può sospendere la partita. Tocca al
responsabile dell'ordine pubblico.
«Ma noi siamo regolamenti o uomini, esseri viventi? Un uomo prova delle emozioni.
Ci vuol poco a capire che quando si subisce violenza dentro uno stadio in quel momento
si è deboli, si ha bisogno di aiuto. Se la persona che ti sta davanti, l'arbitro, non
lo capisce, t'incazzi: è normale. E quello poi estrae il cartellino. Che
mancanza di sensibilità! E non ha nemmeno interrotto la partita, cosa che
rientra nei suoi poteri. Ma la cosa più grave è un'altra».
Quale?
«Quando un nero chiede aiuto, l'aiuto non arriva mai. E chi deve prendere
decisioni se ne frega. Se si continua a giocare è perché si valuta che in
fondo la cosa non è considerata grave. Tutti dovrebbero mettersi allo
specchio, meditare su questo. Anche allenatori, calciatori, giornalisti».
E quale atteggiamento dovrebbero avere?
«Decidere loro. I calciatori si fermano, gli allenatori fanno rientrare la squadra
negli spogliatoi. Ma vogliamo veramente cambiare lo stato delle cose? Questa è la
vera domanda».
Par di capire che secondo lei tutti i discorsi sul razzismo fatti a
posteriori sono solo ipocrisia.
«Se ci sono atti di violenza tra calciatori, l'arbitro interviene ed estrae un cartellino.
Se ci sono scontri tra tifosi che mettono in pericolo l'incolumità del pubblico ci si
ferma perché c'è un'emergenza. Nessuno invece vede il pericolo quando un giocatore viene
aggredito e violentato a causa del colore della pelle. Solo se si è neri si
capisce questa distinzione. In Francia o in Italia - il problema non è solo
vostro - quando accadono casi di razzismo nel calcio, non ci sono mai
colpevoli. E se non ci sono colpevoli non si attribuisce agli episodi
l'importanza che invece hanno».
Insomma si sottovaluta il problema.
«Sì. Vale per molte categorie di persone. Se si violenta un omosessuale, ci si
indigna ma ci si abitua e la reazione è sempre blanda. Stessa cosa per le
donne. E per i neri la violenza è considerata un'abitudine, non è una
novità. Siccome non viene sanzionata, è in qualche modo accettata».
Il resto degli spettatori cosa dovrebbe fare?
«Se qualcuno viene aggredito in metropolitana e tu vedi ma non intervieni, diventi
correo. Esiste una legge in Italia che si chiama omissione di soccorso. Negli stadi
si omette il soccorso. Troppo facile per un arbitro dire: non ho sentito bene gli
ululati e non ho bloccato il match. Quando un arbitro sbaglia a fischiare un rigore,
spesso viene sospeso per una-due giornate. Non ho mai sentito di arbitri
sospesi per non aver sentito cori discriminatori. Dunque il sistema perdona
l'insensibilità sul razzismo».
Un calciatore nero viene offeso quando gioca in una squadra avversaria, ma lo stesso
diventa un beniamino se viene ceduto alla tua. È il motivo per cui qualcuno esclude allora
che si tratti di vero razzismo.
«È un ragionamento aberrante. Affonda le radici nella storia dell'immigrazione, della
schiavitù. Ti accetto se mi servi, altrimenti ti posso insultare. È giusto?».
La Fifa, l'Uefa fanno abbastanza per combattere il fenomeno?
«Fanno il loro lavoro. Potrebbero fare molto di più. Decidere, ad esempio, che la quota
di razzismo presente in ogni Paese sia uno dei metri di valutazione che fa guadagnare o
perdere punti nel ranking. Nella Coppa del Mondo a parità di classifica, passa la squadra
che ha meno cartellini. Si dà un peso al rispetto delle regole. Il calcio non è solo
performance atletica è anche valori condivisi. Perché allora non considerare
il grado di civiltà di un Paese o di una singola società? C'è razzismo,
invece di quattro squadre in Champions hai diritto solo a tre, eccetera».
Col populismo trionfante in Europa, hanno successo slogan come "prima i francesi"
(Marine Le Pen) o "prima gli italiani" (Matteo Salvini). Questo contribuisce ad avvelenare
il clima anche nel mondo dello sport?
«Naturalmente sì. Lo dimostra la storia. Se qualcuno viene "prima" altri vengono "dopo",
sono sotto. Cosa altro è se non razzismo?».
Nota: il contenuto del documento deve essere interpretato in relazione al periodo
in cui è stato redatto.
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