Gestione feudale e prestiti agli amici: i crac bancari si spiegano così
di Sergio Rizzo
Affari&Finanza - La Repubblica
Lunedì 10 febbraio 2020
Che in Italia ci fossero troppe banche si diceva già trent'anni fa. Allora erano un migliaio e in
certe aree del Paese aumentavano anziché ridursi. Come per esempio in Irpinia, alla fine degli anni 80.
Ma li c'era una spiegazione: i soldi del terremoto. Ne arrivavano così tanti che non ce la facevano a spenderli, e
questo innescò la ·nascita di quasi una decina di Casse rurali. Fu però una specie di canto del cigno. A luglio 1990 il
Parlamento approvò la legge voluta dall'ex ministro del Tesoro Giuliano Amato per risvegliare quella che lui aveva
battezzato "la foresta pietrificata": un sistema bancario quasi tutto pubblico controllato dai partiti, lontano anni luce
dal mercato. Negli anni successivi con la trasformazione degli istituti pubblici in società per azioni la spinta alle
aggregazioni risultò impetuosa. E vennero fuori tanti bubboni che placidamente avevano prosperato all'ombra della politica
e degli interessi ai quali la politica faceva da sponda. Saltarono quasi contemporaneamente il Banco di Sicilia e il Banco
di Napoli. Finirono incorporati nelle banche settentrionali, al pari delle poche Casse di risparmio del Sud e di una selva
di piccoli istituti privati. Nel Mezzogiorno la foresta pietrificata spari, dando la stura a polemiche mai sopite sulla
presunta colonizzazione delle banche del Nord, sfociate nei tentativi di ricostituire una banca del Sud. Ovviamente
pubblica: prima ce l'avevano le Poste, ora il proprietario è Invitalia. Come se bastasse fondare una banca per mettere in
moto un pezzo di Paese completamente abbandonato per decenni da una classe politica irresponsabile, che si sta spopolando
con i giovani che fuggono perché manca la cosa fondamentale: il lavoro.
In trent'anni il numero delle banche italiane si è dimezzato. Il personale è stato ridotto in alcuni casi selvaggiamente,
ma il ritornello non è cessato. «Troppe banche», lamentava cinque anni fa il ministro dell'Economia Pier Carlo Padoan
prendendosela con le Casse rurali. «Francamente ce ne sono troppe e troppo piccole», diceva. «Troppe banche», insisteva
Canneto Barbagallo, il capo della vigilanza della Banca d'Italia: puntando anch'egli il dito verso le casse rurali. «Troppe
banche», concordava perfino il presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi: troppi sportelli, troppi dipendenti,
troppo di tutto. Che la riduzione dei margini di interesse causata da tassi ai minimi storici non avrebbe potuto più
sostenere. Una malattia presente in tutta Europa, aggiungeva. Tuttavia decisamente più grave, secondo il Fondo monetario
internazionale in alcuni Paesi. Fra cui, appunto, l'Italia.
La patologia si chiama "Overbanking". Ma siamo sicuri che basterebbe tagliare gli sportelli per risolvere i problemi? La
cronaca degli ultimi dieci anni dice con estrema chiarezza che la sua fragilità ha molte ragioni, e fra queste il numero
delle banche e dei dipendenti non sembra davvero la più importante.
Il Monte dei Paschi di Siena era una banca in buona salute e redditizia almeno così dicevano i bilanci, prima di
intraprendere l'avventura, assolutamente folle per com'è stata condotta, dell'acquisizione dell'Antonveneta. E li non
c'entra davvero nulla l'eccesso di sportelli o di personale: le colpe, è stato ormai accertato, sono tutte della politica
che non ha mai voluto togliere le mani dalla banca e di amministratori inadeguati. Non senza la responsabilità degli organi
di controllo e del ministero dell'Economia. E mentre la banca più antica del mondo si incamminava verso un tracollo che
avrebbe costretto il Tesoro a riprendersela, in giro per l'Italia saltavano altri istituti. Non nelle aree depresse ma
nelle zone più ricche del Paese. E saltavano tutte per gli stessi motivi, anche qui per nulla legati a questioni
dimensionali.
Banca Etruria, la banca degli orafi. La Popolare di Vicenza, altra banca dell'oro, guidata da un signore che aveva fama di
essere uno dei più grandi imprenditori vinicoli non della sua Regione: ma del pianeta. Veneto Banca, la banca degli sghèì,
del Nord Est opulento. Poi Banca Marche, la Cassa di Risparmio di Ferrara, la Carige, E ora, dulcis in fundo, la Popolare
Bari. Tutti crac con il medesimo inconfondibile marchio di fabbrica. Ovvero, una gestione sconsiderata con crediti concessi
dagli amministratori al di là di ogni sana e prudente valutazione ad amici e sodali, quando non a sé stessi. Per non parlare
dei finanziamenti "baciati", concessi per far comprare ai clienti indebitati azioni della banca nel tentativo di rafforzarne
il patrimonio ed evitare il commissariamento. E sotto gli occhi di una vigilanza disordinata, con Banca d'Italia e Consob
che non si parlavano se non lo stretto necessario, capace di commettere errori clamorosi. L'ultimo, spingere una Popolare
Bari già traballante ad acquisire Tercas: operazione che ha contribuito ad affondarla. Con il risultato che ora anche della
banca pugliese se ne farà carico lo Stato.
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