Banche-imprese, come cambiare il rapporto con Pmi e private equity
di Paolo A. Bonazzi (imprenditore e consulente di corporate finance)
Milano Finanza
Sabato 25 aprile 2020
Da molti operatori economici le banche, si sa, sono viste non come imprese
ma enti che devono aiutare la loro attività, a prescindere, soprattutto
quando si parla delle mitiche banche di territorio. Quanta chiacchiera
provinciale si è fatta sul tema, salvo poi lamentarsi da parte dei clienti
se magari si sono sottoscritte obbligazioni o azioni della medesima banca
amica, che finisce a sua volta per largheggiare nel credito a certi clienti
e quindi meno nei profitti per gli investitori. Facile concludere che ognuno
ha le banche che si merita.
Neppure giovano leader politici ed influencer che scatenano oggi più che mai
guerre di categoria e inutili "assalti ai forni". Anche per il rapporto
banca impresa, pmi soprattutto, il virus è forse soltanto il detonatore, non
l'esplosivo latente che popolava già il tessuto socio economico, che con i
relativi provvedimenti d'emergenza potrebbe quindi essere una buona
occasione, anche per banche e imprese, per non tornare affatto come prima.
Ad esempio rinforzando con urgenza i mezzi di capitale rispetto al debito,
che contrariamente alla vulgata alle pmi nostrane è stato concesso fin
troppo.
Le banche e gli investitori istituzionali vorranno sostenere i fondi di
private equity che, operando aumenti di capitale per le aziende, le rendano
più bancabili? Si dovranno fare delle scelte, e si stavano già facendo ante
crisi, perché non tutti saranno bancabili e non tutte le pmi resteranno sul
mercato. Ovviamente serve un private equity rivolto apertamente al growth
capital, che non cerchi più dei facili ritorni a breve a scapito del cash
flow aziendale, grazie ai ben noti meccanismi di leva. In altri termini,
meglio capitali pazienti in linea con i nuovi (e non momentanei) scenari di
tassi bassi. E molte più aggregazioni fra imprese si dovranno poter fare
consolidando il sistema.
La capacità di avere credito a sua volta dipenderà, speriamo una volta per
tutte, non più da rapporti amicali e dagli ultimi tre bilanci. Buona
governance e sistemi di pianificazione e controllo dovranno essere la base
di tutto favorendo le migliori aziende. Processo inevitabile, ma selettivo.
Molti addetti ai lavori hanno già apprezzato il rinvio al 2021 delle norme
della riforma del Codice della crisi d'impresa, occasione per ripartire e
pensarlo meglio. Per alcuni aspetti, chi la sta studiando ne ha visto i
rischi se mal interpretata. Vogliamo consegnare le aziende ai Tribunali o ai
talora presuntuosi esperti di compliance? Le imprese non hanno bisogno di
questo. Però le aziende avrebbero da sempre dovuto monitorare per tempo i
rischi di continuità, la sostenibilità finanziaria a medio termine: in
sintesi, dotarsi di semplici quanto basilari metodi di pianificazione e
controllo, tanto del conto economico quanto delle proprie - molto spesso
soprattutto altrui... - finanze.
Da tempo i principi contabili, ed il buon senso, chiedono che il bilancio
sia approvabile in continuità se nei seguenti 12-18 mesi vi è sostenibilità.
I buoni consigli di amministrazione prima approvano il budget dell'anno in
corso e poi il bilancio dell'anno prima. Ma quanta supponenza resta ancora
in certe pmi e nei loro titolari, assecondati da consulenti non sempre
professionali, nello snobbare metodi gestionali in realtà per nulla
complessi: pochi fogli Excel, una riunione anche solo ogni trimestre,
un'attitudine mentale.
Non sono richiesti per tutti master ad Harvard e neppure procedure e
comitati degni di Eni o Pirelli. Ogni buon direttore amministrativo che
interagisca con il collega commerciale (se entrambi ben stimolati e
valorizzati dall'imprenditore) saprebbe benissimo come fare.
I buoni professionisti e consulenti sono pronti. In tutte le imprese, quelle
che fatturano almeno una decina di milioni di euro, ci potrebbero facilmente
essere un vero consiglio di amministrazione – poche persone, ma vere! - ed
un autentico collegio sindacale. Invece tanti imprenditori si pregiano
addirittura di non averlo. Quanti, troppi, consigli tenuti "sulla carta" con
sindaci e amministratori di facciata.
E d'altra parte, a danno delle buone aziende, quanti direttori di banca per
non fare la loro parte qualitativa nell'analisi del merito di credito si
trincerano ancora dietro gli algoritmi della sempre invisibile "Direzione"?
Direttori di banca che poi si lamentano di non fare il budget degli
impieghi. Tutti ostacoli che sarebbero superabili in qualche modo, se solo
la filiale della banca conoscesse meglio il suo cliente. Sia detto per
inciso: quando le banche torneranno ad investire nei ruoli chiave di
direttori di filiale e capi area sarà sempre troppo tardi.
Occorre profilare in maniera qualitativa il cliente pmi - e le banche
migliori infatti lo stanno già facendo - in modo che il sistema banca
sappia, aldilà della memoria e buona volontà del singolo funzionario, se il
cliente ha una organizzazione aziendale di qualità. Se l'impresa è dotata di
sistemi di pianificazione e controllo, se è gestita da veri amministratori e
magari qualche manager (con un vero cv, ben diverso da essere "figlio del
titolare").
Sarebbe da valorizzare anche l'organismo di vigilanza ai fini L. 231, perché
l'organizzazione esimente ai fini 231 è in fondo una certificazione di
qualità. E tornando al collegio sindacale, spesso anche revisore nelle pmi,
che si valuti la sua indipendenza e professionalità a tutto merito del
rating d'impresa. Speriamo davvero che prima della necessaria ripartenza del
Codice della crisi d'impresa, e dopo il Covid, non tutto torni come prima e
le aziende, con i loro consulenti e con le loro banche, siano promotrici di
un passo avanti nella qualità del loro fare. Le buone prassi gestionali
devono diventare un esempio ed un vantaggio competitivo.
Nota: il contenuto del documento deve essere interpretato in relazione al periodo
in cui è stato redatto.
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